Autoritratto entro lo specchio condiviso
di Claudio Musso
In un famoso saggio del 1985 Umberto Eco si “arrampica” sugli specchi cercando di spiegare se questi ultimi siano o meno dei segni. Per farlo, tra i vari esempi analizzati, cita il caso degli specchi deformanti ai quali appartiene anche lo specchio convesso cui si allude esplicitamente nel titolo (celebre quello del Parmigianino). Nel medesimo testo il semiologo si riferisce alla fotografia come a una sorta di “specchio congelante”, capace quindi, al contrario delle superfici specchianti convenzionali, di trattenere una traccia dell’immagine riflessa.
Gli autoritratti altrui di cui Giovanni Fredi si appropria nel progetto Everyone has something to share paiono rimarcare questa dimensione ambigua tra specchio e fotografia, tra la possibilità di riflettersi e l’occasione di lasciare una traccia di sé. Il vero punto di svolta sta nel fatto che il dispositivo utilizzato come piano riflettente non è un oggetto posseduto dall’autore dello scatto, tantomeno egli è a conoscenza di una probabile sopravvivenza dello scatto stesso, e, per di più, prima di procedere al clic di certo non se ne preoccupa. Fredi, infatti, non ha chiesto l’autorizzazione né agli anonimi autori né ai noti detentori, seppur transitori, delle immagini in questione, se n’è appropriato sottraendole ai tablet e agli smartphone in esposizione nei negozi dedicati.
Non sono qui in discussione le ragioni che portano l’individuo ad esporre la propria immagine all’interno di quello che potremmo chiamare lo “specchio condiviso”, ovvero un dispositivo in grado non solo di riflettere l’immagine del soggetto bensì di trattenerla e, come accade nella maggior parte dei casi, di inserirla in uno spazio aperto e comune, la rete. Piuttosto, l’interesse si sposta sugli esiti che una tale pratica può avere sulla produzione dell’autoritratto, sia come gesto amatoriale sia come genere della storia dell’arte. I limiti della cornice cominciano ad apparire non adeguati a contenere non tanto il contenuto superficiale delle immagini, per lo più volti e mezzibusti, quanto i loro possibili destinatari o, per altri versi, la loro ipotetica destinazione d’uso.
Lo sguardo fisso in camera che inevitabilmente chiama in causa un interlocutore, primo tra tutti l’artista che non è rimasto indifferente, è accompagnato da ammiccamenti, mascheramenti, pose sconvenienti, smorfie, linguacce, ghigni e da una pletora di comportamenti simili che si legano alla tradizione ormai pluricentenaria dell’autoscatto, da Fortunato Depero a Andy Warhol fino ai giorni nostri. Nell’era del selfie l’equilibrio precario tra l’apparire e lo scomparire sembra pendere nettamente verso una frenetica rincorsa a far mostra di sé senza preoccuparsi dei modi, dei tempi e, soprattutto, di chi è incaricato a gestirli entrambi.